Ucciso da clan, vitalizio dopo 23 anni. La sorella: «Stato, intervento tardivo»

Ucciso da clan, vitalizio dopo 23 anni. La sorella: «Stato, intervento tardivo»
Venerdì 2 Marzo 2018, 15:54 - Ultimo agg. 19:58
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Il giorno dopo la sentenza del giudice civile che ha dichiarato il fratello, ucciso dai Casalesi 23 anni fa, «vittima innocente» della camorra riconoscendo il vitalizio ai genitori, Giovanna Pagliuca è soddisfatta, «perché lo Stato ha dimostrato di essere presente, anche se avrebbe potuto intervenire molto prima». Suo fratello Genovese fu massacrato a Teverola, nel gennaio del 1995, per punizione, solo per avere difeso la fidanzata dall'amore molesto di una donna, amante del boss, che la sequestrò e la violentò.

Le sentenze di condanna, tra cui quella in Appello divenuta definitiva nel 2009, accertarono che ad agire fu un commando formato da esponenti di primo piano dei Casalesi, tra cui Aniello Bidognetti, figlio del capoclan Francesco, e Giuseppe Setola. Eppure, nonostante le sentenze avessero riconosciuto che Genovese era vittima senza alcuna colpa e senza alcun legame con il clan, il Ministero dell'Interno non aveva mai riconosciuto agli ormai anziani genitori il vitalizio previsto per legge, dal momento che un'informativa dei carabinieri sosteneva che Genovese frequentasse una persona vicino al clan. Una circostanza superata dalla sentenza di ieri.

«Speriamo solo che il Ministero non faccia ricorso» si augura la sorella Giovanna. «Non avevamo bisogno - prosegue - che ce lo dicesse un giudice che Genovese non c'entrava nulla con quella gente; l'abbiamo sempre saputo e lo abbiamo sostenuto più volte in tute le sedi. Questa sentenza non fa giustizia di 23 anni passati nel dolore, ma quantomeno allevia il senso di solitudine; tanta gente ci ha manifestato solidarietà e vicinanza, e questa è forse la cosa più bella». Giovanna quasi non vuole sentir parlare di soldi. «Mi dà quasi fastidio sapere che dietro tutto questo combattere per farci riconoscere un diritto sacrosanto c'è una somma di danaro». Giovanna racconta poi di un incontro avuto con il vice-prefetto che a Caserta curò la pratica, Luigi Palmieri. «Ci disse - ricorda - che aveva rigettato l'istanza sulla base di informazioni delle forze dell'ordine, ma disse di non sapere nulla della vita di Genovese. Ci ha detto di aver applicato la norma. È probabile che più in alto avrebbe dovuto indirizzarlo meglio» conclude Giovanna Pagliuca.

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