Dopo 19 anni al 41bis, Schiavone-Sandokan è ancora il capo dei Casalesi

Dopo 19 anni al 41bis, Schiavone-Sandokan è ancora il capo dei Casalesi
di ​Domenico Zampelli
Giovedì 20 Luglio 2017, 14:54
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Francesco Schiavone conserva anche in carcere il suo storico ruolo di capo del clan dei Casalesi. Percepisce somme di denaro ed è attivo nella programmazione delle attività. Lo afferma la quinta sezione penale della corte Suprema di Cassazione, che ha depositato le motivazioni con le quali ha respinto il ricorso presentato contro l’ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Napoli nello scorso mese di gennaio e poi confermata agli inizi di marzo dal Tribunale della Libertà, provvedimento che aveva disposto la misura della custodia in carcere di Schiavone per il reato di associazione mafiosa.
Nel ricorso era stata sottolineata la circostanza che, come ammesso nella stessa ordinanza impugnata, l’indagato si trova in carcere e peraltro in regime di 41 bis - carcere duro - dal lontano 1998, per scontare la pena di svariati ergastoli. Inoltre, a parere della difesa, non era stata raggiunta la prova neanche indiziaria della percezione di uno stipendio in carcere da parte del sodalizio criminale, per il tramite del figlio Walter. Da ultimo era stata contestata l’insufficienza delle dichiarazioni rese sul punto dal collaboratore di giustizia Raffaele Venosa.
Argomenti che non sono stati accolti dalla Suprema Corte. Il collegio - presidente Antonio Settembre, relatore Roberto Amatore - ha accolto le conclusioni del procuratore generale Perla Lori e ha ribadito in sentenza il principio secondo cui «in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso il sopravvenuto stato detentivo dell’indagato non esclude la permanenza della partecipazione dello stesso al sodalizio criminoso, che viene meno solo nel caso, oggettivo, della cessazione della consorteria criminale ovvero nelle ipotesi soggettive, positivamente accertate, di recesso o esclusione del singolo associato».
«Dunque – si legge nel provvedimento - deve essere qui riaffermato il principio di diritto secondo cui in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo del soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della sua partecipazione al sodalizio, atteso che la relativa struttura - caratterizzata da complessità, forti legami tra gli aderenti e notevole spessore dei progetti delinquenziali a lungo termine - accetta il rischio di periodi di detenzione degli aderenti, soprattutto in ruoli apicali, alla stregua di eventualità che attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non ne impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo e alla programmazione delle sue attività».
Né sussistono, a parere degli ermellini, elementi capaci di rappresentare una diversa realtà: «Ritiene la Corte che, in ragione della mancata prova di un recesso da parte dello storico capo clan dei Casalesi dalla menzionata consorteria malavitosa di stampo mafioso e della dimostrazione del pagamento dello stipendio al ricorrente oggi detenuto, deve ritenersi non venuto meno il vincolo associativo e la partecipazione attiva dell’indagato al predetto sodalizio criminoso».
La conseguenza di tali premesse è quindi il rigetto del ricorso e la conferma del provvedimento emesso dal gip di Napoli: «La ordinanza impugnata merita integrale condivisione, e ciò laddove, più in particolare, si evidenzia quel “vincolo sinallagmatico” tra il pagamento dello stipendio al capo clan ed il mantenimento del vincolo associativo ed il contributo anche programmatico del detenuto al sodalizio stesso».
 
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