La potenza del latitante misurata
dai citofoni: il caso Cpl Concordia

La potenza del latitante misurata dai citofoni: il caso Cpl Concordia
di Mary Liguori
Sabato 14 Ottobre 2017, 07:55 - Ultimo agg. 17:04
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Quella rete citofonica che collegava i bunker dell’imprendibile boss alle case dei suoi luogotenenti, quel telefono senza fili intercettabili di cui parla il pentito Generoso Restina, è finita in ben tre processi, infittendo il mistero intorno alle protezioni che hanno consentito al capo dei capi dei Casalesi di sfuggire alla cattura per ben quattordici anni.

A sorpresa la storia dei citofoni è sbarcata addirittura nel processo Cpl Concordia che ieri si è concluso in primo grado dinanzi al tribunale di Aversa. Dibattimento incentrato sulla metanizzazione dell’Agro-aversano, finito con l’assoluzione per i tre manager Cpl alla sbarra, si è spostato sull’esigenza, da parte della procura Antimafia, di dimostrare la vicinanza di uno degli imputati, ieri condannati, al clan dei Casalesi.

Si tratta di Antonio Piccolo, l’imprenditore che ieri ha incassato una condanna a dieci anni di reclusione per legami con la camorra. Secondo l’accusa, quei cavi abusivi passavano attraverso i suoi depositi a Casapesenna, comune del boss Zagaria. Proprio per chiarire questo aspetto, un aspetto di fondamentale importanza per «provare», dal punto di vista dell’accusa, la vicinanza di Piccolo al capoclan, fino a ieri il collegio presieduto da Francesco Chiaromonte ha continuato ad acquisire informazioni e, prima della serrata in camera di consiglio, in aula è comparso un teste di polizia giudiziaria, un esponente della squadra mobile di Napoli, il reparto di polizia che si occupò della caccia all’uomo che portò alla storica cattura del capoclan. 

Il poliziotto salito sul banco dei testimoni ha parzialmente chiarito la situazione. Nei pressi dei depositi di Piccolo c’era la casa di Carmine Zagaria, fratello del boss. L’agente ha ripetuto che c’era uno spezzone di «tubo corrugato» rosso che fuoriusciva dai muri della casa di Zagaria e secondo l’accusa passava per i depositi di Piccolo tuttavia il teste non è stato in grado di fornire materiale investigativo che chiarisse definitivamente la faccenda, ovvero i rilievi fotografici che invece la procura possiede per i reperti trovati in casa di Carmine Zagaria. Con lo stesso scopo, ricostruire la mappa dei citofoni e l’eventuale coinvolgimento di Piccolo, sono stati chiamati in causa due ex tecnici del Comune di Casapesenna. Il loro intervento è risultato quasi ininfluente in quanto non hanno saputo fornire informazioni sulla presenza di Piccolo a Casapesenna durante i lavori di riqualificazione della piazza e la realizzazione delle fogne della piazza del paese. Motivo di scontro tra accusa e difesa è stato anche il ritrovamento in un tombino nei pressi del deposito di Piccolo di 45 metri di filo arrotolato che secondo l’accusa furono tranciati dopo la cattura del boss. Secondo l’ispettore chiamato a testimoniare erano stati spezzati dopo l’arresto di Zagaria, visto che furono ritrovati almeno tre anni dopo la cattura. Secondo la difesa di Piccolo, avvocati Giuseppe Stellato e Carlo Taormina, erano nuovi perché avvolti nel cellophane. 

È evidente, però, che almeno su questo fronte, la tesi d’accusa - rappresentata in aula dai sostituti procuratori Antimafia Maurizio Giordano e Catello Maresca, ha retto in pieno. Per il tribunale di Napoli Nord, Piccolo era interno al clan. Di qui la condanna a dieci anni per associazione per delinquere di stampo mafioso.

La storia dei citofoni, però, un sistema che dà la cifra della potenza del boss all’epoca della sua latitanza, verrà sviscerata ulteriormente negli altri processi in cui è finita. Dal bunker di via Colombo si irradiava per mezzo paese. E ne era al corrente, secondo la Dda, l’ex sindaco Fortunato Zagaria, oggi sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa.  
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