Cesaro, la difesa: «I Polverino? Noi
vittime, non soci», i pm: depistaggi

Cesaro, la difesa: «I Polverino? Noi vittime, non soci», i pm: depistaggi
di Mary Liguori
Venerdì 26 Maggio 2017, 08:16 - Ultimo agg. 13:35
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«A noi non servivano soldi, men che meno quelli del clan, in quanto avevamo a disposizione 130 milioni di euro del project financing». Parola di Aniello Cesaro, il fratello imprenditore di Luigi il deputato. Parola «libera» perché ieri, al gip Francesca Ferri, formalmente, non ha risposto. Non c’è stato tempo per leggere gli atti. Per cui ha reso spontanee dichiarazioni difensive, in accordo con gli avvocati che lo rappresentano, Paolo Trofino, Vincenzo Maiello e Raffaele Quaranta, penalisti che, sin da subito, hanno contestato la tempestività della fissazione dell’interrogatorio di garanzia. Per questo i Cesaro hanno chiesto di essere ascoltati successivamente dai pm, i sostituti Dda Giuseppe Visone e Mariella Di Mauro, titolari del fascicolo che scotta, il «Prisma», che ha portato all’arresto di Aniello e Raffaele Cesaro e getta pesanti ombre anche sul politico di Sant’Antimo, attribuendogli legami con il clan Puca e scambi di favori, a pagamento, in campagna elettorale. Ieri, a Poggioreale, si è difeso anche l’ingegnere Oliviero Giannella, finito a sua volta in carcere con l’accusa – tra le altre - di essere l’artefice degli atti falsi inerenti il Pip di Marano e di essere stato il «tecnico di fiducia del boss Giuseppe Polverino». «È un anno che denuncio pressioni da parte della camorra, ne ho parlato più volte ai carabinieri», ha detto il professionista. Interrogati anche Antonio e Pasquale Di Guida, difesi dagli avvocati Antonio Briganti e Alfonso Vozza. Pasquale ha risposto alle domande del gip chiarendo, dal suo punto di vista, la propria posizione, mentre l’ex assessore provinciale di Forza Italia, Antonio, ha reso spontanee dichiarazioni ed ha a sua volta chiesto di essere sentito dai pm nei prossimi giorni. 

«Tentativi di depistaggio»
Interrogatorio dal pm, dunque. È quanto chiedono gli indagati. Ma per Aniello Cesaro sarà un deja vu. Dal pm, l’imprenditore c’è già stato. Si presentò in procura spontaneamente il 14 ottobre del 2016. E raccontò di essere vittima di pressioni, minacce e richieste estorsive da parte del clan Polverino. E di essere stato sequestrato, insieme al fratello Raffaele, dagli uomini del capoclan Peppe Polverino. Un fatto avvenuto nel 2008, periodo in cui il boss era latitante. «Fummo costretti da uomini armati a incontrare Polverino dentro una casa diroccata. Condotti nel suo covo, il boss voleva costringerci a cedergli la concessione del Pip di Marano». Vittime, dunque. Non soci. L’istruttoria avviene, è bene chiarirlo, mentre le indagini sui Cesaro da parte del Ros dei carabinieri di Napoli, diretto dal tenente colonnello Gianluca Piasentin, vanno avanti speditamente e segnano i primi colpi con i sequestri dei capannoni inagibili (fatti risultare agibili a suon di documenti falsi e firme fasulle) all’interno del polo produttivo da 40 milioni di euro. «Tentativo grottesco di depistaggio» per gli inquirenti si tratta di questo. Cesaro, secondo l’accusa, si presenta dal pm per «mettere le mani avanti». E parla dell’incontro con il capoclan per rendere una sua versione dei fatti. Chiarendo che c’era stato, negli anni, il pagamento a titolo estorsivo di una tangente al clan pari a un milione e 400mila euro. Per la Dda quei soldi non sono estorti, ma costituiscono gli «utili» dovuti al boss-socio. A suggellare la tesi accusatoria arrivano poi le dichiarazioni del pentito Biagio Di Lanno, ex luogotenente dei Polverino addetto alla raccolta delle estorsioni. «Peppe il Barone non doveva chiedere il pizzo sul Pip di Marano in quanto il polo era una cosa sua. E poi se avesse voluto chiedere delle estorsioni si sarebbe rivolto a me perché di questo mi occupavo io personalmente». Di qui l’ipotesi della procura. «Depistaggio e tentativo di inquinare le prove» che il gip sottoscrive e motiva facendo riferimento anche all’intercettazione registrata una volta che Aniello Cesaro lascia gli uffici giudiziari del Centro direzionale dopo il colloquio con il pm; colloquio che, sempre secondo gli inquirenti, l’indagato chiede di ottenere con lo scopo di comprendere cosa la procura abbia in mano contro di lui e contro suo fratello. «Chella sapeva tutte cose», commenta riferendosi al pm, e aggiunge: «Mo avimma correre», secondo il gip «correre ai ripari per salvare il salvabile». Interpretazioni, dunque, tali da avere indotto il gip a spiccare gli arresti.

La rabbia del boss
I pentiti non mancano di ricostruire momenti di frizione tra i Cesaro e i Polverino per il ritardo nella consegna degli «utili». «Enricuccio Passaro fu messo a lavorare come guardiano nell’area Pip da Peppe Polverino. Il suo incarico era quello di spiare i movimenti dei Cesaro e avvisare Salvatore “Toratto” Polverino ogni volta che Raffaele Cesaro arrivava sul cantiere. Enricuccio era un loro fidatissimo, tant’è che aveva anche nascosto Peppe Polverino ai Camaldoli, dietro la clinica per i pazzi, quando era latitante». Sono i racconti di Roberto Perrone e risalgono al periodo a cavallo tra l’autunno 2015 e l’inverno 2016. Passaro, interrogato, negherà di essere mai stato in contatto con i Polverino e di essere mai stato il guardiano dell’area Pip di Marano. A ogni modo, l’apice del momento di contrasto si raggiunge all’atto dei sequestri. Peppe Polverino è detenuto a Poggioreale e viene a sapere dei sigilli attraverso i giornali. Non riesce a trattenere la rabbia per quanto sta succedendo a Marano, dove il «suo» principale investimento è finito sotto sequestro. E maledice «la società con i Cesaro». Il boss riceve a colloquio la sorella. «Hanno fatto i capannoni abusivi... - la donna è furiosa - non vorrei che dovessi perdere tutte cose... sto pagando il mutuo... l’avvocato mi ha detto che se hanno fatto gli imbrogli sono problemi loro». «Li devono uccidere», impreca il capoclan.

Il summit di camorra
Aniello Cesaro avrebbe preso parte a un incontro con due influenti personaggi di malavita. E «Antonio Di Guida è la stessa cosa di Peppe Polverino». Il collaboratore di giustizia che ne parla è Biagio Di Lanno. «Di Guida stava costruendo a Villaricca Due e prese soldi da Rocco Cafiero, un contrabbandiere poi arrestato con 50 chili di hashish. Costui aveva dato a Di Guida due milioni di euro, ma pretendeva che gliene restituisse, a titolo di interessi, due milioni e mezzo. Ma Di Guida era uomo di Peppe Polverino così, appena quest’ultimo uscì di prigione, ordinò a Sabatino Cerullo e a me di andare da Cafiero. Cerullo lo picchiò e gli disse “ma allora non hai capito che Antonio Di Guida è Peppe Polverino?”» Lo stesso Sabatino Cerullo, secondo Di Lanno, prese parte all’incontro che gettò le basi per quella che sarebbe stata, secondo la Dda, la spartizione della ghiotta torta del Pip di Marano. All’incontro c’erano Cerullo, gli Sciccone - titolari di una ditta movimento terra -, Di Lanno e Aniello e Raffaele Cesaro. Il pentito Di Lanno colloca il summit all’anno 2008 quando si stabilì, a suo dire, quali imprenditori dovevano lavorare al piano di insediamenti produttivi di Marano.
 

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