Maria Pirro
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Quel piccone del Padiglione 25

Quel piccone del Padiglione 25
Maria Pirrodi ​Maria Pirro
Giovedì 8 Febbraio 2018, 21:30 - Ultimo agg. 29 Gennaio, 15:29
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Quanto resta di un uomo ridotto a numero: Vincenzo Boatta scava nel passato per cercare una risposta. Ha 76 anni, ne aveva 33 quando partecipò all’occupazione del Padiglione 25, un reparto in manicomio autogestito assieme ad altri infermieri. «Tra il 1975 e il 1976, osservammo il non rispetto delle vecchie regole: niente fasce di contenzione ed elettrochoc, camere lasciate aperte, dialogo continuo con i pazienti prima addirittura vietato. Non sapevamo nulla delle persone che avevamo in custodia», racconta. «Sotto i colpi di piccone, però, morì un ricoverato e, con l’omicidio, il nostro progetto subì un arresto dovuto soprattutto alla mancanza di servizi territoriali di salute mentale».


Ecco cosa è cambiato, da allora. Tre anni dopo, la legge Basaglia ha portato alla progressiva chiusura di tutti «i pesanti edifici eretti al limitare delle città»; per il sociologo Robert Castel, simbolo di dominio non solo geografico ma nel paesaggio morale. Al Santa Maria della Pietà di Roma, il manicomio di Boatta, questo è avvenuto solo negli anni Novanta. E, a distanza di 40 anni dalla riforma, un’altra legge ha disposto la dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari: «Estremo orrore», li ha definiti il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, firmando il decreto che sostituiva le sei strutture in Italia con residenze sanitarie diffuse, attrezzate dalla regioni e dedicate agli ammalati giudicati socialmente pericolosi. Ma sicuri che siano spariti anche gli ultimi luoghi senza umanità?

​La questione torna al centro di riflessioni e denunce in occasione del seminario “La cura della libertà” organizzato a Napoli, nell’ex Asilo Filangieri, da Psichiatria democratica e Asl. Lavori aperti, il 26 gennaio, con la proiezione di « Padiglione 25». Il docufilm di Claudia Demichelis e Massimiliano Carboni raccoglie infatti le testimonianze degli infermieri romani e le pagine del registro delle consegne trasformato in diario collettivo e da poco ristampato da Ediesse. «Il rapporto sanitario - afferma Boatta - è stato uno strumento di comunicazione tra di noi, un patrimonio comune per conoscere le storie di tutti i pazienti e arrivare a portarli fuori dal manicomio». La parte più commovente nel testo rieditato da Demichelis riguarda Luigino, da bimbo legato addirittura a un termosifone dalla suora e ancora terrorizzato dal buio: è uno dei pazienti più complicati da gestire, vede il mare nel dicembre 1975 per la prima volta in tutta la sua vita. 



Invece Evio è ossessionato dall’infedeltà della moglie che lo riaccoglie in casa solo dopo la promessa di una pensione di invalidità; Salvatore litiga con la madre che alla fine causa il suo internamento coatto; Edoardo tenta il suicidio perché non riesce a reinserirsi in società. E poi c’è Pietro, che consegue la licenza media in una scuola serale; Gabriele, che va in trasferta ad Ancona con la speranza di ricominciare; Luciano, che si innamora di Gisella, un’altra ricoverata. Personaggi resi umani nei resoconti dagli infermieri che li seguono con uno sguardo e una responsabilità diversi. E così scoprono (e annotano nel diario) che la loro estrazione sociale è «in gran parte analoga a quella dell’internato».

Boatta e gli altri sono ex fabbri, pittori edili, autisti, tipografi, manovali, contadini, manovali. Fanno parte a pieno titolo di quel movimento che «nega l’istituzione» guidato dal più importante psichiatra del Novecento, Franco Basaglia, intervistato già nel 1968 in uno straordinario reportage, «I giardini di Abele», di Sergio Zavoli, che mostra, tra l’altro, le prime assemblee nei reparti. Ma, nel manicomio capitolino, gli operatori non vengono aiutati dai medici proprio quando sembrano aver conseguito «il potere di essere non solo guardiani» e il dentista resta disponibile una mattina a settimana per più di 1500 pazienti: può solo cavare i denti, non curarli.



Con un colpo di piccone, il Padiglione 25 si rivela utopia della realtà. Il reparto diventa scena del crimine, quando Elio chiede una sigaretta e, siccome non riceve risposta, va nello stanzino (aperto come le altre camere), impugna l’attrezzo e uccide il compagno che ancora riposa. L’omicidio segna la fine della occupazione e l’inizio del processo per gli operatori. «Ma la successiva chiusura di queste strutture segna in maniera netta un percorso che continua, perché si passa da una psichiatria del controllo a una salute mentale di comunità dove l’obiettivo principale resta un nuovo protagonismo dei pazienti, degli operatori e dei familiari», spiegano Emilio Lupo e Salvatore di Fede, ai vertici nazionali di Psichiatria democratica. Ciò significa, insistono, che «la malattia mentale non è più ineluttabile. La storia del Padiglione 25 è uno spunto importante per ragionare, oggi, su come difendere e rafforzare le politiche di integrazione e di liberazione degli utenti, in un momento di grande difficoltà dei servizi pubblici sempre più depauperati di risorse».



Dal dibattito a Napoli emergono vecchie e nuove resistenze, problemi comuni. Tra i principali, la carenza di personale e progetti personalizzati con prospettive di lavoro. Rossana Calvano, psicoterapeuta della Asl, fa notare quanto sia decisivo partire dalle radici, e si parla anche dell’impegno sostenuto da Boatta e Carboni con dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 1 per trasformare, se non proprio il Padiglione 25, un altro spazio dell’ex manicomio in officina di inserimento lavorativo, perché «la nostra non è una storia di reduci».

In tanti, come lo psichiatra Giuseppe Ortano, riferiscono le criticità esistenti anche dopo aver spento la luce negli ospedali psichiatrici. Quanto è faticoso sostenere il cambiamento. A questa conclusione arriva anche Maria Grazia Giannichedda, tra le più strette collaboratrici del compianto Basaglia, coprotagonista del docufilm, che scrive nell’introduzione del libro: ieri come adesso «non si vedono gesti espliciti di contrasto al persistere e crescere, nel sistema dei servizi di salute mentale, di forme di custodia terapeutica e di internamento di medio e lungo periodo del tutto estranee allo spirito e alla lettera della riforma». E alla vita.

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