L'eterna lamentela sulle università del Sud e qualche idea per una proposta

Venerdì 29 Gennaio 2016, 15:38
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Hanno ragione certi intellettuali a tuonare contro l’incuria che ha ridotto quello che fu il Paese che ha inventato buona parte della modernità, nella periferia desolata di un impero che ha altrove i laboratori di conoscenza. Hanno torto però a concludere regolarmente le loro filippiche senza uno straccio di proposta che non sia quella alquanto generica di “aumentare risorse pubbliche” che sono notoriamente scarse. Alto è il lamento di Galli della Loggia che facendo l’eco di una ricerca del centro studi  di Gianfranco Viesti, ha denunciato, qualche settimana fa, il doppio disfacimento dell’università italiana: con molto meno soldi a livello complessivo; e al cui interno si sta, definitivamente, svuotando un Sud che è impoverito ulteriormente dal meccanismo perverso dell’assegnazione di una quota crescente dei fondi per le università sulla base della valutazione.

Rimandando ad un altro articolo la questione delle risorse complessive, dico che sul Sud, al radar dei due opinionisti sfuggono alcune novità neanche piccole, ignorando le quali si rischia di cadere nell’antico sport di sparare sulla croce rossa.Vero è che la valutazione erode la percentuale di fondi che vanno al Sud, ma altrettanto vero è che di merito la foresta pietrificata dell’università italiana ha bisogno assoluto e che è un dato positivo che la quota di finanziamenti legati ai risultati sia passato dallo zero al 25% negli ultimi sei anni. Del resto, gli atenei del Sud continuano ad avere a disposizione finanziamenti ordinari per studente che sono, assolutamente allineati a quelli del resto d’Italia (32% del totale per il 32% degli iscritti in corso), anche senza contare i fondi europei che, da soli, potrebbero aumentare di un quarto ciò che le università del Sud possono spendere e su cui è urgentissimo tagliare qualsiasi ulteriore mancia ai sistemi di clientela custodi del degrado.

Sulla valutazione sarebbe gravissimo tornare indietro sull’idea - orrida per molti degli “intellettuali” che alzano alti lamenti sull'università - che la ricerca e la didattica debba essere produttiva. Tuttavia, i meccanismi vanno semplificati e resi comprensibili agli utenti del sistema - studenti e famiglie, innanzitutto. Va eliminato l’equivoco che conti solo la ricerca, anzi solo le pubblicazioni, laddove, invece, per la gran parte dei clienti - quelli attuali, per non parlare di quelli nuovi (lavoratori, anziani, migranti) - è la qualità dell’insegnamento che fa la differenza. Le università devono differenziarsi: le classifiche più evolute dicono che - sia al Sud che al Nord che nel resto d’Europa -  sono quelle piccole, con una missione ad essere più efficienti ed attrattive. E, soprattutto, la valutazione deve concentrarsi sui miglioramenti di un’università su se stessa, più che sui valori assoluti, assegnando un premio a quelle che crescono in territori difficili: in questo senso, l’Università del Sannio, quella del Salento, l’Università di Informatica di Salerno e quella di Cosenza dicono che non esiste il Sud come realtà uniformemente depressa. 

 Ancora più cruciale, sarà il coraggio (come con la “buona scuola”) di scongelare il talento che c’è dando alle singole università, ai rettori e ai “consigli di amministrazione” l’autonomia gestionale e di reclutamento, senza la quale la valutazione rischia di essere - effettivamente - controproducente. Bisogna, anzi, pensare di legare alla valutazione non tanto le risorse che vanno alle università - rafforzando, dunque, i trend sia verso il basso che verso l’alto - ma la carriera e la remunerazione di chi dirige. ll premio più alto è, in fin dei conti, dare la possibilità al rettore che vince (o pareggia in condizioni assai sfavorevoli) di replicare in situazioni di minore prestazione il proprio modello organizzativo, di esportare la propria competenza, avendo a disposizione meccanismi che consentano la contaminazione.

La sfida vera è, però, fuori dall’università: una società e imprese che non chiedono conoscenza - vivendo nella fatale illusione che tutto si riduca ad un gioco a somma zero - non sono compatibili con un sistema universitario che abbia ambizione di entrare, stabilmente, tra i primi del mondo. E ciò è particolarmente vero nel Mezzogiorno. Ciò costringe a pensare all’ipotesi di concentrare la ripartenza in poli nei quali attrarre docenti e studenti di livello internazionale e sulle “specializzazioni intelligenti” dei nostri territori: un po' come capitò a Catania con l’Etna valley per una stagione troppo breve; come potrebbe fare la Campania con un patrimonio archeologico e naturale che affascina i viaggiatori di tutto il mondo; o l’intero Sud, le cui università possono ridiventare luogo dove ricostruire i legami spezzati dal fondamentalismo.  

 Un’università forte può diventare una potente leva di cambiamento per il resto del sistema, come fa la conoscenza che va protetta all’inizio ma che, ad un certo punto, trova la sua strada. Siamo in bilico tra una nuova stagione e la desertificazione nella quale il Sud sprofonda e il Nord rischia di seguirlo: è, però, di proposte concrete e non di stereotipi che abbiamo bisogno per salvarci. 
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