Gigi Di Fiore
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Benedetto Croce e la giustizia borbonica, una lettera poco conosciuta

L'esercito in piazza Duomo a Milano nel maggio 1898
L'esercito in piazza Duomo a Milano nel maggio 1898
di Gigi Di Fiore
Lunedì 19 Dicembre 2016, 12:20 - Ultimo agg. 20 Dicembre, 18:28
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E' noto che Benedetto Croce aveva le sue idee sul regno delle Due Sicilie e sulla dinastia Borbone. Ma è nota anche la sua onestà intellettuale da teorico e assertore dello storicismo filosofico, così come la sua assoluta fede politica liberale. Una fede che lo rese assai critico sulla violenta repressione adottata dallo Stato liberale nel 1898 contro i moti popolari di piazza. Così, fu severo e disapprovò con chiarezza i cannoni e i morti civili in piazza Duomo a Milano, come l'azione sanguinaria della truppa al comando del generale Fiorenzo Bava Beccaris, poi promosso e premiato dal re Umberto I.

In quell'anno, tre mesi dopo gli incidenti, il filosofo scrisse una lettera a Vilfredo Pareto criticando la stretta repressiva e facendo paragoni con la giustizia e la repressione borbonica, che ne uscì più blanda nel confronto con il tanto decantato Stato liberale italiano. La lettera è del 2 agosto 1898, spedita da Resina, e venne poi riprodotta nel primo volume delle "Pagine sparse" rieditate nel 1941. Scrisse Croce: "Non so se nelle carceri e nei reclusori i condannati politici della nuova Italia stiano meglio o peggio dei nostri condannati politici dei Borboni, i quali (almeno gli ergastolani di Santo Stefano, come il Settembrini e lo Spaventa) ricevevano ogni sorta di libri (e lo Spaventa quelli, pericolosi e rivoluzionari allora, di filosofia tedesca), e studiavano e scrivevano: laddove ai nuovi condannati anche questo conforto è tolto".

Questa la prima parte, che decisamente segna un giudizio positivo sui detenuti politici nel periodo borbonico rispetto a quelli in carcere nell'Italia 37 anni dopo l'unità. Ma Benedetto Croce andò ancora oltre e questa lettera, poco nota a molti, getta un'altra luce sulle sue idee, confermando la libertà di pensiero del filosofo abruzzese. Aggiunse Croce, analizzando il sistema processuale nelle due epoche: "Il punto sul quale il confronto s'impone irresistibile è sull'indole e sul modo con cui sono stati condotti i processi politici. Perché si sono spese tante parole e tanti colori rettorici per gridare iniquo il processo, per esempio, fatto dopo il 1848 a Silvio Spaventa? Cito questo che ho avuto modo di studiare da vicino".

Era il famoso processo alla "Setta dell'unità italiana", quello che spinse lord Gladstone a definire le Due Sicilie regno "negazione di Dio". Scrisse ancora Croce nella sua lettera a Pareto: "E' vero che i Borboni provvidero a fornire prove di reato, stipendiando falsi testimoni. Ma ciò prova che il senso giuridico non era del tutto smarrito! Si riconosceva almeno la necessità delle prove di fatto per i reati di azione. Ma i giudici di Milano non hanno sentito questo bisogno...Altresì bisognerebbe ricordare che i tribunali borbonici militari furono singolarmente miti, dando lezioni di generosità e lealtà ai magistrati togati [...] Qui a Napoli si sono avuti oggi casi stranissimi. A un disgraziato scrittorello borbonico, che dichiarava la sua fede tenace, è stato risposto: Questa è la vostra colpa! Ed è stato condannato".

Che dire, queste parole dovrebbe leggerle chi continua a considerare la storia bianco e nero, chi non contestualizza gli eventi e non li mette in relazione con quelli anteriori e successivi per trarne valutazioni. Nessuna beatificazione dei Borbone (oltretutto a pochi giorni dall'anniversario della morte di Francesco II, ultimo re delle Due Sicilie), solo un altro tassello di verità e un documento poco conosciuto, come regalo per le feste natalizie ai tanti cultori della storia del Sud, che vogliono liberarsi da pregiudizi e paraocchi.
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