Rito dei battenti,
apoteosi dei sensi

Rito dei battenti, apoteosi dei sensi
di Pasquale Scialò
Sabato 26 Agosto 2017, 23:55 - Ultimo agg. 27 Agosto, 18:40
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I riti settennali di Guardia Sanframondi rappresentano la scena più immersiva dei culti presenti nell’area campana. Un’esperienza che non ha uguali dove la componente visiva sembra avere il sopravvento sulle altre. I fedeli “battenti” che si percuotono il petto, con la graduale lacerazione della pelle, è l’immagine più diffusa su tutti i media. Ma, per chi vi partecipa non ci si sottrae a una dimensione multisensoriale del rito a partire quella olfattiva: una mistura di umori che mescola l’odore del sangue a quello dell’aceto e vino, diffusi per disinfettare le ferite, che resta impressa ben oltre l’arco dei sette anni.
 
 


L’altra componente, finora poco indagata, è quella acustica formata da un flusso da cui è difficile proteggersi: «Le orecchie non hanno palpebre. Siamo condannati ad ascoltare». Così Murray Schafer scrive ad apertura di un suo recente contributo, dal titolo Orecchie aperte. Questa interessante osservazione pone “a cascata” una serie di domande: questa condanna come può essere espiata? Avere orecchie aperte e disponibili per chi, per fare cosa? E ancora, l’orecchio, in che modo si relaziona agli altri campi espressivi? Proprio quest’ultimo interrogativo ci trascina nell’esperienza patogenica dei Riti Settennali di Guardia Sanframondi dove oggi parte la processione conclusiva dalla piazza San Filippo dove sfilano in successione i fedeli dei rioni Croce, Portella, Fontanella, Piazza. Immersi nei diversi materiali si è catturati da un paesaggio sonoro del culto che si compone di due campi tra loro collegati. Il primo è dato da elementi informali costituiti dal brusio dei partecipanti e da una serie di marcatori identitari, a cominciare dalle cosiddette “campanelle”: due campane di piccole dimensioni fissate su di un asse di legno, che aprono il corteo con un timbro agreste che rinvia ai “campanacci”, indossati dagli animali al pascolo. A questo elemento si sovrappone il continuo persistere dello strumento cosiddetto della “disciplina”, un metallofono che viene usato per battersi sulle spalle per espiare la colpe, a cui si accompagna anche quello di piccoli bastoni percossi, portati dai bambini.
 


Quest’ultimi, riascoltati a posteriori fuori dal contesto, rinviano a una sequenza poliritmica irregolare che evoca lo scoppiettio del fuoco. Poi si aggiunge il gesto sonoro centrale, un colpo cupo dei “battenti a sangue” che si percuotono il petto che suona come una sofferta azione di body percussion, realizzata da uno strumento formato da un disco di sughero dove sono ficcate spilli di metallo tenute da uno strato di cera. Questa prima zona rituale delinea una sorta di area mista dove voci, litanie, giaculatorie, si mescolano a una polifonia cultuale con percussioni, passi, battiti sui corpi, creando un’interferenza semantica inestricabile. Non mancano, naturalmente, come segno sonoro postmoderno, frequenti suonerie di cellulari e sottofondi di radiotrasmittenti della security. Il secondo campo sonoro è quello più formalizzato, nel senso che in esso si trovano diverse strutture vocali idiomatiche: da quelle processionali con un rosario antifonico, dove alla voce antica di alcune devote che intonano una litania in stile melismatico rispondono i fedeli in coro, a forme di componimenti a due e a tre voci, solo femminili e miste. Materiali quest’ultimi definiti con cura nel corso di prove di concertazione.

Ne risulta una complessa partitura del dolore e dell’espiazione, fluttuante nella sua articolazione con momenti di densità acustica a cui si alternano altri prossimi al sussurro e al silenzio.
Per l’ascoltatore la ricezione si configura come un paesaggio sonoro con assolvenze e dissolvenze, avvicinamenti, presenza e allontanamento. In questa complessa cornice performativa da qualche anno opero per conferire centralità al gesto sonoro, in quanto radiografia ad alta fedeltà di una scena rituale che costituisce sia un documento primario per lo studio e la conservazione, sia può divenire uno spunto per successive azioni creative. Ed allora, l’ampio corpus dei materiali sonori raccolti in diversi archivi italiani, come quello presente anche a Napoli presso l’Archivio di Stato, potrà in futuro divenire “canto dato” per ulteriori elaborazioni? Potrà quest’ampia geografia acustica della sofferenza di Guardia diventare anche una installazione sonora? Si può pensare, nella convinzione che, come da tempo sostiene Jacques Attali, che «Da venticinque secoli la cultura occidentale cerca di guardare il mondo. Non ha capito che il mondo non si guarda si ode. Non si legge, si ascolta».
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