Mancino, che sensazioni ha dopo la morte di Riina?
«Prendo atto di ciò che è avvenuto. Si trattava di una persona sottoposta alle misure del 41 bis, di una persona che è stata arrestata, durante il mio mandato di ministro, dopo oltre vent’anni di ricerche, e che dunque ha vissuto una lunga detenzione fino al giorno del decesso».
Certo non si trattava di un personaggio qualsiasi del panorama criminale. Che ricordo ne ha?
«Il ricordo si lega unicamente ai non pochi delitti che ha commesso o commissionato. Le sue doti, tutte in negativo, gli hanno permesso di essere considerato il capo dei capi. Nessuno può dimenticare gli orrendi omicidi e attentati che ha ordinato e fatto eseguire. Ognuno di noi, avendo vissuto quel tempo, ha nella mente le immagini delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, le più eclatanti e dolorose».
Il boss nelle sue ultime ore ha ottenuto la concessione di avere i figli al suo fianco. Lei crede che si possa provare pietà per un boss stragista?
«Per i delitti commessi non può esserci pietà umana. Certo, si tratta pur sempre della morte di un uomo, e personalmente non ho mai pregato affinché una persona ponesse fine ai suoi giorni, a prescindere dallo stampo. Ma ripeto, di un decesso del genere si prende meramente atto. La pietà è qualcosa di ben diverso».
Torniamo alle stragi che costarono la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Due delitti, tra i tanti, che portano la firma di Riina. Nel mezzo, arrivò la sua nomina a ministro. Cosa è stato per lei quel periodo?
«C’era la mafia con tutto il suo potenziale distruttivo, che però lo Stato affrontò con tutte le forze a disposizione, ottenendo risultati importantissimi. Penso, e ne stiamo parlando, all’arresto di Riina, ma anche e soprattutto al maxiprocesso che si chiuse un anno prima. Dopo gli attentati, la lotta proseguì incessantemente, e le conseguenze reattive da parte della criminalità furono anche cruente. Ma era, ed è tuttora necessario impiegare tutte le risorse e le misure a disposizione per affermare la prevalenza dello Stato».
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