Articolo 18, Renzi sfida la Cgil. Camusso: è come la Thatcher. Il premier: difendete ideologie, non i precari

Articolo 18, Renzi sfida la Cgil. Camusso: è come la Thatcher. Il premier: difendete ideologie, non i precari
Sabato 20 Settembre 2014, 12:02 - Ultimo agg. 21 Settembre, 15:47
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Il fronte lavoro diventa incandescente, con uno scontro frontale tra il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso - che evoca «il modello Thatcher» come vera fonte di ispirazione di Matteo Renzi - e il premier che contrattacca a muso duro con un video girato alla finestra di palazzo Chigi: i tanti co.co.pro. e co.co.co sono «condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito».



Non si placano intanto le fibrillazioni all'interno del Pd, a partire dall'ex segretario dei dem Pier Luigi Bersani che annuncia «molti emendamenti» al Jobs act e mette in guardia: se l'obiettivo è «frantumare i diritti» allora «sarà battaglia». Ancora più chiaro è il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, sempre dei democratici, secondo cui «l'attuale tutela dell'articolo 18 deve restare anche per i nuovi assunti».



Le accuse all'esecutivo arrivano una dopo l'altra e in serata il premier interviene, via Youtube, lanciando precise accuse: «A quei sindacati che vogliono contestarci» io «chiedo: dove eravate in questi

anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia, tra chi il lavoro ce l'ha e chi no» perché «si è pensato a difendere solo le battaglie ideologiche e non i problemi concreti della «gente». E precisa: «non

vogliamo il mercato del lavoro di Margareth Thatcher». Lo scopo, al contrario, aggiunge, è creare un sistema del lavoro «giusto».



Ma il premier rischia di dover fare i conti, oltre che con il fronte sindacale, anche con un fuoco amico all'interno del partito. Malessere, però, che non manca nemmeno fra le file sindacali, dove la Fiom spariglia le carte in tavola, anticipando la manifestazione, già fissata per il 25, al 18 ottobre. Una nuova data con cui anche Cgil, Cisl e Uil dovranno fare i conti, nel caso si concretizzasse la loro manifestazione unitaria (una riunione tra i tre leader dovrebbe tenersi all'inizio della prossima settimana).



Anche le sigle del pubblico impiego, ben 14 in tutto dalla scuola alla sanità, hanno infatti deciso di scendere in piazza, con un appuntamento fissato per l'8 novembre contro il blocco della contrattazione. Il puzzle è quindi complesso, con un calendario folto di iniziative di protesta, su cui pende la minaccia dello sciopero generale. Una protesta che Camusso considera «una delle forme di mobilitazione possibile», visto che c'è «chi vorrebbe cancellare l'art.18 sta cancellando la libertà dei lavoratori». Per la Fiom però non c'è più tempo e bisogna agire, perché il rischio è il «ritorno all'800». Il numero uno dei metalmeccanici della Cgil, Maurizio Landini, rompe così ogni indugio e sembra anche svanire il feeling con il premier: sull'art. 18 «Renzi deve dimostrare quanto è figo all'Europa» e aggiunge: «Il contratto a tutele progressive è una presa per il culo se le tutele vengono cancellate».



Nella maggioranza, però, le divisioni restano nette e a cercare di smorzare i toni ci pensa Graziano Delrio: «Le discussioni - dice - aiutano a migliorarsi, l'importante è che non ci siano ultimatum o

posizioni ideologiche». Al fianco di Renzi, anche Angelino Alfano: «Aiutiamo il premier a superare i conservatorismi del Pd», mentre nel partito Fassina si schiera con i contrari: questo testo «per me è

inaccettabile».



La scintilla da cui è partita la serie di reazioni a catena è il Jobs act, o meglio la la delega lavoro, attesa in settimana nell'Aula del Senato. Incassato il primo sì della commissione Lavoro di palazzo Madama l'iter parlamentare continua e il percorso non sembra in discesa. Tempi e sostanza sono d'altra parte due questioni che vanno di pari passo.



Sul punto il responsabile economia del Pd, Filippo Taddei, chiarisce come il governo non miri a un decreto bensì all'approvazione della legge delega da parte del Senato entro l'8 ottobre. Un altro giorno da appuntare, soprattutto per i sindacati confederali che dovrebbero decidere una mobilitazione tutti insieme, con manifestazione ed eventualmente anche un pacchetto di ore di sciopero. Per ora fanno fede le giornate già indicate dalle singole

sigle, la Cgil si è espressa per la prima decade di ottobre (forse l'11) e la Cisl per il 18, che si potrebbe dire curiosamente, coinciderebbe con l'iniziativa della Fiom.



Intanto nel Pd sale la tensione. «Sarà battaglia», promette Pier Luigi Bersani, riprendendo la guida della sinistra Pd, in nome dei diritti del lavoro. L'ex segretario affila le armi e annuncia decine di emendamenti da presentare al Jobs act in Aula al Senato. I renziani per ora non negano irritazione ma ostentano calma: dialogo costruttivo, è il mantra, ma poi la maggioranza decide.



Renzi, che la prossima settimana sarà negli Stati uniti, ha convocato la direzione del partito per il 29 settembre. In quella sede sarà discussa e decisa la linea. Vale il modello sperimentato sulle riforme: il partito delibera, a maggioranza, poi ci si adegua tutti. Gli attacchi interni sul lavoro non giungono inattesi, osserva un parlamentare renziano: su quei temi il Pd è ancora attraversato da due sensibilità, una delle quali più vicina a quella dei sindacati, che Renzi attacca senza mezzi termin. Il bivio è «decidere se essere una grande sinistra moderna, riformista di stampo liberal e innovatrice o una sinistra conservatrice ormai legata al modello diventato insostenibile del welfare del secolo scorso», afferma il sindaco di Firenze Dario Nardella, fedelissimo di Renzi.



L'obiettivo del governo e della maggioranza renziana del Pd è arrivare al via libera del Senato al Jobs act entro il vertice europeo dell'8 ottobre. E se la direzione del 29 settembre dirà la parola definitiva, il confronto si articolerà la prossima settimana in Parlamento. Martedì mattina torneranno a riunirsi in assemblea i senatori dem. Lunedì pomeriggio i bersaniani si vedranno a Palazzo Madama per scrivere gli emendamenti da presentare all'attenzione del gruppo, martedì sera Area riformista elaborerà un documento politico su lavoro e legge di stabilità. «Ai nostri emendamenti - spiega Alfredo D'Attorre - sarà difficile dire no, perché seguono la linea Pd dettata da Renzi stesso a partire dalle primarie. A meno che i renziani non avvertano un'attrazione fatale verso l'Ncd di Sacconi».



A preoccupare la sinistra dem, a partire da Cesare Damiano, Guglielmo Epifani e Bersani, sono le maglie troppo larghe della delega scritta dal governo. Il vicesegretario Lorenzo Guerini si fa mediatore «ottimista» e dice che in direzione un «punto di incontro si può trovare»: «Nessuno ha messo in discussione il reintegro per motivi discriminatori - rassicura - c'è piuttosto un tema di

allargamento della sfera di indennizzo».



Ma la sinistra dem vuole un contratto a tutele crescenti che a un certo punto assicuri la garanzia dell'articolo 18 e il reintegro: in tal senso «saranno presentati emendamenti», annuncia Bersani, che in mattinata vede alla Camera Epifani, D'Attorre e altri deputati. Altrimenti, afferma, «si frantumano i diritti e allora sarà battaglia».



«Le discussioni aiutano a migliorarsi, l'importante è che non ci siano ultimatum o posizioni ideologiche», avverte Delrio, che invita a «uscire dall'ossessione dell'articolo 18». Ma Corradino Mineo gli risponde che lui non è disposto a votare nessuna delega in bianco né tantomeno la fiducia al governo su questo tema. Ma i renziani ricordano che se al Senato sarà stallo, c'è sempre l'arma del decreto. Il governo, ha chiarito Renzi, non esiterà a usarla.



«I sindacati, quelli che hanno difeso e protetto le ingiustizie in questi anni, sono quelli che afferiscono al loro Governo. Sono sindacati che afferiscono ai partiti. Di cosa stiamo parlando?». Così il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, esponente del Movimento 5 Stelle. «Si fa un teatrino televisivo - aggiunge - però poi si mettono i sindacalisti a presidenti delle commissioni Lavoro e attività produttive della Camera che sono del Pd e sono Epifani e Damiani. Mi aspetto, in questa fase politica dopo le europee in cui stanno venendo meno tutte le promesse di questo Governo, che i cittadini approfondiscano e non si leghino a queste dichiarazioni, che fanno parte del teatrino della politica». Secondo Di Maio, «nei fatti Governo e sindacati sono vicini e il Governo continua a farsi proteggere da alcuni sindacati nelle porcherie che fa».
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