Polveriera Medio Oriente, il piano di guerra dell’Isis

Polveriera Medio Oriente, il piano di guerra dell’Isis
di Fabio Morabito
Venerdì 3 Luglio 2015, 00:07 - Ultimo agg. 4 Luglio, 15:13
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Era stato annunciato con enfasi: l’attacco a Mosul, la seconda città dell’Iraq da tempo in mano ai jihadisti dell’Isis, la Casa Bianca lo fissò per aprile. Poi lo posticipò a maggio. Il Pentagono aveva perfino rivelato molti particolari (truppe irachene sostenute dai peshmerga curdi; caccia americani di supporto nei bombardamenti) al punto che i repubblicani avevano accusato Barack Obama di aver preallertato i miliziani di Abu Bakr al Baghdadi. Fatto è che l’attacco a Mosul non c’è stato e che l’Isis, nel frattempo, ha anche conquistato la città di Ramadi, che è sulla strada per la capitale Bagdad. Ora sono molti a dubitare che un attacco militare possa essere sufficiente. Obama, secondo il Daily Telegraph, ha perfino rifiutato di fornire armi pesanti ai peshmerga curdi. Troppe volte (se non sempre) in Medio Oriente le armi degli Stati Uniti sono finite poi nelle mani dei loro nemici.

RAQQA E PALMIRA

E il sogno di un Califfato che dovrebbe andare dall’Iraq all’Algeria, che sembrava folle solo pochi mesi fa, ora appare almeno come una minaccia temibile.

L’Isis già controlla un vasto territorio, anche se poco popolato, che è la Siria orientale (dove ha sottomesso le città di Raqqa e Palmira) e la vasta regione confinante dell’Iraq. Ma soprattutto, ed è questa la preoccupante novità, riesce a colpire in tutto il Medio Oriente. Con flessibilità, attaccando in modo diverso perché diverse sono le realtà e gli obbiettivi.

L’attentato in Tunisia ha messo in ginocchio il turismo dopo la strage di cento giorni prima al museo del Bardo. La Tunisia è il territorio che ha fornito più miliziani stranieri all’esercito di Al Baghdadi: si calcola circa tremila, dei quali cinquecento sarebbero tornati in patria. Il reclutamento avviene con le regole di una multinazionale o di una missione Onu: un premio una tantum di ingaggio per trasferirsi, poi uno stipendio regolare. La povertà è sempre un terreno fecondo per il fanatismo. La Tunisia così si trova centinaia di potenziali terroristi, formati militarmente, e pronti a missioni spettacolari come la strage del resort di Sousse.

In Egitto, mercoledì, scenario completamente diverso: l’Isis, che combatte il governo del generale Al Sisi che sta perseguitando i Fratelli musulmani, ha pianificato un attacco che ha travolto le forze di sicurezza in Sinai. In Kuwait, Arabia Saudita e Yemen, dove l’Isis è soltanto riuscita a infiltrarsi, ha scatenato il terrore con quattro attacchi kamikaze a moschee sciite. In Afghanistan sta facendo proselitismo in concorrenza con i talebani. In Africa sta conquistando le simpatie di gruppi radicali, sia in Tunisia che in Libia, dove l’Isis - comunque comprimaria rispetto alle milizie agli ordini dei governi di Tripoli e di Tobruk - ha conquistato i villaggi attorno a Sirte.

IL CAMALEONTE

Lo Stato islamico sta riuscendo a fare proselitismo anche in Afghanistan. E i talebani guardano ai jihadisti di al Baghdadi come a un concorrente. Sulla Striscia di Gaza è già presente, secondo Israele. Fatto è che della pioggia di razzi che negli ultimi tempi sono stati lanciati dalla Striscia verso le Colonie, è proprio Hamas a incolpare i gruppi salafiti che simpatizzano per il Califfato. Missili lanciati - si può immaginare - per provocare la reazione di Israele e una nuova guerra. Ma lo stesso Shin Bet - gli 007 israeliani - hanno riferito due giorni fa in Parlamento del progressivo indebolimento dei sunniti di Hamas, non più solidi al comando nella Striscia. Per ora, l’Isis sta perdendo la sua guerra in Libano.

Dove combatte contro l’esercito regolare nei villaggi della valle della Bekaa, al confine con la Siria. C’è una città, Hersal, che negli ultimi tempi ha raddoppiato i suoi abitanti: la metà sono profughi siriani, ma fra questi ci sono infiltrati dell’Isis. Al Baghdadi si è appellato ai sunniti dell’esercito libanese perché disertassero. Un appello che è stato un fallimento. Beirut si sforza per mantenere la multiconfessionalità anche nell’esercito (anche se sono pochi i cristiani che si arruolano), e questa politica preserva l’unità del Paese. Ma che resta fragile ed esposto al camaleonte Isis, pronto ad adattarsi a ogni battaglia.

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