Morto Garcia Marquez, il Realismo magico e i fantasmi di Macondo

Gabriel Garcia Márquez
Gabriel Garcia Márquez
di Rita Sala
Venerdì 18 Aprile 2014, 00:07 - Ultimo agg. 19 Aprile, 15:40
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Aveva compiuto 87 anni lo scorso 6 marzo, Gabriel Garcia Mrquez, Nobel colombiano della Letteratura e “padre” del Realismo magico, scomparso ieri nella sua casa di Città del Messico mentre tentava di riprendersi da una polmonite che lo aveva recentemente costretto a un breve ricovero in ospedale.



Il giorno del compleanno Don Gabriel era sceso nella strada, tra i giornalisti e i fan che lo attendevano per festeggiarlo, con un grande sorriso sulle labbra e una rosa gialla nell’occhiello. Le ultime fotografie lo ritraggono così, lo sguardo sapiente ma un po’ lontano, pervaso da una felicità diffusa, legata forse, come quella mai disgiunta dalla malinconia di tanti suoi personaggi, alla coscienza di tanti misteri irrisolti.



«Mille anni di solitudine e tristezza per la morte del più grande colombiano di tutti i tempi» ha detto il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos. E davvero Gabo, non solo per la Colombia ma per tutto il continente latinoamericano, ha fatto tanto, contribuendo a lanciarne i miti, i riti, i profili, le magie. Nel 1967 pubblicò la sua opera più famosa, Cent’anni di solitudine (50 milioni di copie in 25 lingue). Le avventure della famiglia Buendia nel villaggio di Macondo hanno fatto il giro del mondo. La storia di quella gente, aggrappata, attraverso i tempi e le generazioni, a emozioni e trasfigurazioni inedite per l’Occidente, è risultata vincente, ha soggiogato l’attenzione di pubblici diversi, la brama di sogni di genti vicine e lontane. E Macondo è diventato, in tutto il pianeta, il nome che designa una realtà impossibile ma vera, assurda ma obbligatoria.



Nato il 6 marzo del 1927 ad Aracataca, in Colombia, primogenito di undici figli, Gabo ha avuto un papà telegrafista e una casa non solo affollata di tante persone, bensì piena di fantasmi. Da tutto questo ha preso le mosse per produrre titoli quali Foglie morte, La mala ora, L’autunno del patriarca, Cronaca di una morte annunciata, L’amore ai tempi del colera, Dell’amore e di altri demoni, Memoria delle mie puttane tristi.



Lo hanno paragonato e Mark Twain e Charles Dickens, però Gabo, che tanti epigoni ha volontariamente e involontariamente partorito, è stato solo se stesso. Come Aureliano Buendia in quel di Macondo, “un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche».



Come Aureliano Buendia e gli altri della sua misteriosa famiglia «quando fu esperto nell'uso e nel maneggio dei suoi strumenti, ebbe una nozione dello spazio che gli permise di navigare per mari incogniti, di visitare territori disabitati e di allacciare rapporti con esseri splendidi, senza bisogno di lasciare il suo laboratorio. Fu in quel periodo che prese l'abitudine di parlare da solo, vagando per la casa senza badare a nessuno, mentre Ursula e i bambini si rompevano la schiena nell'orto per coltivare il banano e la malanga, la manioca e l'igname, la ahuyama e la melanzana. Improvvisamente, senza alcun preavviso, la sua febbrile attività si interruppe e fu sostituita da una specie di allucinazione».



Con i bambini di Macondo ha ricordato «l’augusta solennità con la quale il padre si sedette a capotavola, tremante di febbre, consunto dalla veglia prolungata e dal fermento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta: “La terra è rotonda come un'arancia”».
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